La Rete Banco Alimentare incontra Bernhard Scholz

Lo scorso 14 dicembre abbiamo incontrato Bernhard Scholz e lo abbiamo provocato a dibattere su alcuni temi che attraversano le vicende di Banco Alimentare. In modo particolare, abbiamo proposto di dialogare a partire dalla condivisione di testimonianze sulle dinamiche che alimentano i rapporti ed i processi di lavoro nelle diverse realtà della Rete Banco Alimentare. Crediamo che questo testo, ripreso con attenzione, proponga utili spunti di approfondimento personale. E che possa essere un prezioso strumento di verifica dei rapporti tra volontari e collaboratori di Banco Alimentare e che possa essere apprezzato da tutti quelli che spendono gran parte del proprio tempo facendo esperienza comune di costruzione di un’opera.

Buona lettura e buona riflessione, Andrea Giussani

Andrea Giussani – Siamo qui per fare un incontro che sia di aiuto, di sostegno per le nostre realtà. Abbiamo chiesto aiuto a Bernhard per alcuni approfondimenti e questo incontro va in qualche modo connesso alle parole che abbiamo raccolto all'incontro con Carron (dell’8 giugno scorso): a Bernhard abbiamo chiesti di rispondere ad una serie di domande che gli abbiamo in parte anche già anticipato, ma vuole essere una conversazione non una lezione; quindi ho cercato recuperare dalle vostre non tantissime domande tutte quelle che avevano un nesso tra di loro fuse in una sintesi di alcune domande, ho chiesto a chi ha fatto alcune domande, fondendo le altre domande, di porle ma sentitevi totalmente liberi con approfondimenti, con agganci, testimonianze: non vuole essere una conferenza di Bernhard, ma un lavoro da fare insieme nel quale lui ci aiuta. Quindi cominciamo, oltre che ringraziandolo per la serata che ci dedica e in generale per l’attenzione che ci dimostra, ponendogli le domande che abbiamo raccolto poi ripeto si aggiunga molto liberamente.

Pietro, OBA Sicilia CT- La nostra opera, che fa riferimento nello Statuto e nello spirito alla dottrina sociale della Chiesa, è costituita da 22 enti autonomi. Di fronte ad una evidente diversità di risorse economiche ed alimentari tra nord e sud, emergono tensioni tra condotte proattive, volte ad assicurare la sostenibilità delle singole realtà, ed il desiderio di aiutare quanti sono in una situazione più difficile o vivono fasi di crescita spesso bisognosa di aiuto. Senza voler scadere in un atteggiamento di pretesa vicendevole ma solo di reale condivisione, che strada è necessario percorrere per vivere una sussidiarietà autentica all’interno della Rete Banco Alimentare? Come le opportunità e le difficoltà delle Rete possono essere messe a sistema ed a servizio del bene della Rete stessa?

Bernhard Scholz - Buonasera. La risposta la vorrei dare con una riflessione sulla sussidiarietà. Noi abbiamo una idea di sussidiarietà che è questa: sussidiario è ciò che non fa lo Stato; ma questo è assolutamente superficiale. Il vero problema è che la sussidiarietà parte dalla singola persona, dalla coscienza che la persona ha di sé.

Detto in un altro modo: se io aiuto Andrea in una determinata situazione in cui lui è a disagio, o lui aiuta me, o noi ci aiutiamo, cominciamo ad entrare in un rapporto dove ci sosteniamo. Una società civile dovrebbe essere profondamente caratterizzata da questa reciprocità. Tenete conto che Papa Benedetto ai tempi, nell'Enciclica "Caritas in Veritate", ha detto che la reciprocità è “l'intima costituzione dell'essere umano” perché nessuno può vivere tra sé e sé, e quindi io divento me stesso entrando in rapporto con altri; però, mettendomi in gioco, perché dentro questo rapporto io, mettendo in gioco me stesso, il mio talento, il mio tempo, dedicandomi, io maturo. La maturità è di una persona che si fa carico delle cose essenzialmente e non marginalmente; la nostra maturazione dipende esattamente da questo. Venendo meno questa reciprocità, fra vicini di casa, nello sport, nel volontariato e così via, viene meno: a) la maturità della persona, b) la consistenza di tutto quello che chiamiamo socialità. Lo dice la Dottrina Sociale della Chiesa rendendo esplicita una cosa che fa parte dell'antropologia umana, che attraverso la fede si rende più evidente, perché la fede fa vedere cose che forse normalmente non vedresti con questa chiarezza. Sussidiarietà vuol dire che in tutto quello che è possibile che le persone fra di loro trovino come soluzione o opportunità, lo Stato non si deve intromettere, proprio per non rovinare il potenziale di crescita personale e sociale che c'è dentro ognuno. Questo significa che se io faccio parte di una realtà sussidiaria, tutta la cultura di cui faccio parte deve essere impregnata da questa logica sussidiaria. Ci sono due caratteristiche che vorrei aggiungere per quanto riguarda lo specifico del Banco: il Banco è nato sostanzialmente "contro lo spreco", e da dove nasce questo? Se non nasce da un moralismo nasce da una gratitudine, perché tu capisci che tutto quello che c'è è un dono, e non puoi sprecare un dono. Un dono ti è dato, ti è affidato. Custodire il dono è (detto positivamente) "Non andiamo a sprecare!" Perché "spreco" è detto in negativo, in positivo è "cerchiamo di essere più grati possibile" per tutti i doni che abbiamo ricevuto e che cerchiamo di custodire; tutti i doni, soprattutto i doni alimentari e i doni delle relazioni.

Questo vuol dire che il Banco dovrebbe essere l'Opera che dal mio punto di vista dovrebbe essere cosciente che l'opera sociale nasce per una gratitudine, non perché IO faccio il bravo, IO faccio il buono, IO sono quello che riesce ad aiutare i poveri, gli handicappati, etc etc. NO, nasce per una gratitudine: perché neanche il mio talento che mi permette di aiutare gli altri, me lo sono dato io: me lo ritrovo addosso. Lo dico anche agli imprenditori: guarda che il tuo talento te lo ha dato qualcuno, non è che ti sei svegliato e ti sei costruito il tuo talento. Quindi tutto è dono! Se io lavoro coscientemente per una ultima gratitudine, dovrei essere preservato dall'incorrere nell'errore più clamoroso in cui può indurmi un’attività nell’ambito sociale: cioè che diventa qualcosa con cui mi identifico, cercando la mia consistenza in quello faccio attraverso l’opera. Perché questo vorrebbe dire che divento possessore dell’operare e che non servo più l'opera, invece di impegnarmi gratuitamente realizzando così me stesso e un pezzo di socialità attraverso i doni che ho ricevuto. Questa cultura della gratuità dovrebbe essere la stessa cultura che delinea i rapporti tra i banchi – e questo vale anche per le CDO locali, le opere sociale, le imprese, vale per tutti - perché tutto alla fine si regge sulla capacità di lavorare insieme e lavorare insieme senza una ultima gratuità non è possibile. E questo non può essere imposto ma deve nascere dal di dentro della persona, può solo nascere da una certa coscienza che dipende da ognuno di noi. L'autocoscienza in una persona è sostanzialmente basata o sulla gratitudine o sulla pretesa: tertium non datur! Io non ho mai visto altro nella mia vita. Quindi non possiamo avere un approccio moralistico a questo problema, o un approccio legalistico, dobbiamo avere una modalità che parte dall'origine dell'opera stessa: gratitudine, quindi gratuità, quindi condivisione. Se manca questo tutto il resto diventa forse non impossibile ma molto complicato. Mi permetto di sottolineare questo aspetto anche per un'altra ragione di cui avevamo parlato prima a tavola: visto che viviamo in una società civile che si sta dissolvendo con una velocità tragica, opere che hanno lo spessore del Banco, dovrebbero essere molto coscienti che oltre che a fare quello che fanno, sono esempi (e non solo la Colletta lo dimostra ma è il lavoro quotidiano che state facendo) che è più umano condividere, che è più umano lavorare insieme; certamente con la chiara coscienza che questo è difficile, perché se lavorare insieme fosse facile, se condividere fosse facile, non ci troveremo in mezzo a l'individualismo. L'individualismo è la "confort zone" nella quale tutti si ritirano per evitare l'impegno di sé, per evitare la fatica di fare un passo indietro perché tutti possiamo fare un passo in avanti, per non dover fare il sacrificio del confronto, per non dover fare dei compromessi necessari e utili; la collaborazione è difficile, difficilissima: dentro le imprese, fra le imprese dentro le opere, fra le opere, in famiglia, etc. La convivenza è difficile, ti sfida, ti fa uscire da quello che tu vorresti in questo momento, dalle tue aspettative e pretese, ti sfida, ma è proprio questo il momento dove tutto matura, perché la maturazione avviene proprio in quel momento lì. Secondo me abbiamo assolutamente bisogno del Banco per quello che fa ma anche per quello che rende presente in termini di una socialità possibile, in un momento in cui la socialità sta crollando. Per me da questo punto di vista il Banco è un'opera favolosa perché rende presente come una socialità basata sulla gratitudine e quindi su una condivisione ultimamente gratuita, riesce a cambiare in meglio la società.

Il fatto che non c'è socialità, o sempre di meno, il fatto che non c'è sussidiarietà, o sempre di meno, che non c'è assunzione di responsabilità, o sempre di meno, tutto questo ha una ragione: perché tutto questo implica una sfida alla persona nel suo centro, non a latere, e richiede quindi una grande coscienza di sé, una consapevolezza di sé e della propria umanità. Se questo viene meno, la sussidiarietà, la collaborazione, non viene più percepita come utile e non viene percepito come fonte di una ultima soddisfazione che nasce dal fatto che io mi scopro in una crescita personale e professionale attraverso l’impegno lavorativo anche faticoso o difficile. È più comodo non entrare in questo gioco. Se il Censis dice che l'Italia è arrivata ad un livello di individualismo insuperabile - vuol dire che la cosa è accertata anche sociologicamente. Ma affrontare questo problema moralisticamente è inutile o addirittura un boomerang. La domanda è: Vale la pena fare la fatica della collaborazione? Lo sforzo che devi fare, vale la pena o no? Tra i Banchi lavorare insieme è difficile, discutere insieme, confrontarsi è difficile. Allora per quale ragione e per quale scopo vale la pena? È inutile che ci mettiamo d'accordo per "metterci d'accordo” - questo non è uno scopo vero. Dobbiamo capire in nome di che cosa, per che cosa, per quale scopo ci mettiamo insieme. E quindi preferirei una bella discussione serrata sul PERCHE', che non ore e ore di discussioni spesso inutili sul COME! Quale è la ragione per cui vale la pena che ci giochiamo insieme la partita? I "tuoi" poveri non sono i tuoi, ti sono affidati come sono affidati altri poveri ad altri; cosi come i "tuoi" volontari non sono i tuoi volontari.

Il Banco ha una opportunità enorme di dimostrare in questo momento storico a questa Nazione che è possibile vivere diversamente, costruire diversamente. Ma questo non è possibile senza che ciò che sta alla base della sussidiarietà si metta esistenzialmente in gioco. Ognuno di noi ha una responsabilità anche in questo senso. Quando mettete piede nel Banco là dove siete, nei vostri magazzini, nei vostri uffici, vi guardano! E voi comunicate inevitabilmente una impostazione di vita, di una socialità, di un’opera sociale, una coscienza di povertà, di non spreco, di condivisione. Lo comunicate con la modalità con cui agite, decidete, non decidete, intervenite. Non possiamo non comunicare quello in cui realmente crediamo. Non è prima di tutto una questione di coerenza ma una questione che riguarda ciò in cui credo veramente e con cui mi misuro anch'io. E questo che la gente quando ti guarda vuole sapere: tu in che cosa credi? per te il Banco che significato ha? Chi sono i poveri per te? Lo spreco, cosa significa per te? Il volontariato che valore ha? Che stima hai delle persone che lavorano con te? Le risposte a queste domande non le possiamo delegare! Dobbiamo delegare il più possibile ma non possiamo delegare la coscienza che abbiamo del significato dell'opera che guidiamo.

Andrea Giussani - Qualcuno vuole aggiungere, approfondire, sottolineare, chiedere su questo primo affondo?

Giovanni, volontario Fbao - Solo un nesso, visto che è stato richiamato all'inizio, con le cose dette da Carron. Carron ad un certo punto ha detto che non è un problema di etica, è un problema di intelligenza. Il tenerci all'unità non è un problema di essere bravi è un problema di concezione.

Marco, OBA Marche - Visto che siamo in tema voglio ricollegare all'esperienza che è come in una azienda, io ho anche una azienda, i criteri sono importanti ma non sono sufficienti perché l'esperienza noi la costruiamo giorno per giorno vivendo anche diversamente gli istanti, quello che succede. Io spesso ho avuto un atteggiamento aziendalista anche verso il Banco, cioè siccome è la novità dell'Europa, perché effettivamente è così - io ci credo molto nelle parole che hai detto - è come se questa novità passasse per il banco beneficente, invece esiste tutto un livello che noi viviamo tutti i giorni.....cioè un banco è beneficente se io vado al livello fin del rapporto che abbiamo tra di noi, adesso non saprei come dirlo, però mi colpisce molto perché rischiamo sempre di cadere nello schema insomma; quindi, voglio dire, l'esperienza che viviamo tutti i giorni, io l'ho scoperto negli ultimi anni, perché il Banco per me è stato un tema, invece adesso è più una esperienza, e mi rendo conto che l'esperienza va proprio nella giornata, nella quotidianità, nel tempo che dedichi alla persona, in tutte queste cose qui.

Marziano, volontario Fbao - Io, seguendo quello che diceva Montagna...io sono un volontario del Banco Alimentare, sono come il pezzo da museo, nel senso che quando è nato il Bco Alimentare io lavoravo in Star ed ero a fianco del Cavalier Fossati. Il rischio che corro io è quello di "essere capace", del "fare tutto" del "io sono bravo, so tutto" come qualcun altro ci aveva detto: il sapere fare tutto, l'essere bravi è proprio questa cosa qua. Ecco, questo è un rischio... "Banco alimentare, quello che serve i poveri, etc"... si, ho capito, ma non è quello l'importante. Per me il vivere il banco non è questa roba qui. Se non è per me. Ce ne sono forse molti più bravi di me che sanno fare questa cosa, per cui il rischio che corro io in questo momento è questo.

Valter, OBA Umbria - Sempre di più stiamo vivendo in un tempo dove tutto deve essere inserito in procedura o certificato e controllato. Mi sembra che anche la ns. realtà, nata come opera di carità stia andando per questa strada, oggi sembra più sulla traccia di un’Azienda, oltretutto con velocità diverse, chi con molti dipendenti e chi invece con solo volontari. Come far coincidere le due cose e non perdere l’origine di come è nato il Banco, cioè la storia stessa?

Non siamo padroni dell'opera, ma custodi di un patrimonio che abbiamo ricevuto e che abbiamo la responsabilità di conservare e di far crescere. Quindi, nella prospettiva dei prossimi anni, cosa giustifica "l'esserci" della Fondazione: una autorevolezza che si fonda su "competenze", "specializzazioni", "servizi", "fondi", etc, elementi in qualche modo legati al “profilo del soggetto”? oppure ha una sorta di sua "oggettività", che ha valore fondativo e non si riduce a competenze, specializzazioni, etc, etc pur essendo preziose? Quale è lo specifico contributo che la Fondazione può dare?

Bernhard Scholz - Lavorando anche molto con le imprese e le opere sociali mi sembra molto difficile mettere insieme cose, anzi mi sembra impossibile. Come far coincidere per esempio il profitto con l'umanità, come mettere insieme tecnologia e persona: sono cose che non si possono “mettere insieme”: ci vuole qualcosa che le unisca alla radice e quindi nello scopo. Il fatto che ci sono procedure che io ritengo essere in contraddizione al vero intento nostro di essere al servizio delle persone, questo significa che c'è un concetto sbagliato all'inizio. Per spiegarmi faccio un esempio. Quando noi vediamo la foto di un bambino denutrito in Africa e c'è una ragazza volontaria che gli dà del latte, ci commuoviamo e pensiamo che questo sia il gesto più umano immaginabile. Ma la ragazza per fare questo ha bisogno di una catena logistica che faccia arrivare il latte con tutte le procedure indispensabili che una tale catena richiede, occorre gente che installi frigoriferi secondo norme ben precise, a tante altre funzioni di tipo “tecnico”. A questo punto l’idea che il gesto di dare il latte sia qualcosa di umanamente più significativo di tutti gesti necessari per renderlo possibile diventa difficile da sostenere. Spesso abbiamo un concetto molto superficiale di umanità, perché è prevalentemente emotivo. Certo, può darsi che certe procedure siano esagerate e quindi non giustificabili dallo scopo. Se voi andate a farvi operare in un ospedale, ci sono delle procedure di igiene per chi lavora in sala operatoria che sono fastidiose, ripetitive, noiose: ma se non ci fossero tu non usciresti vivo dall’ospedale. Quindi bisogna sempre chiedersi se la procedura abbia un senso o no, se ha una finalità adeguata o no: tutto dipende dallo scopo! Quindi io devo partire dalla finalità dell'opera e poi andare indietro per vedere se la procedura aiuta o non aiuta questo. Può anche darsi che io debba seguire una procedura che a me personalmente dà fastidio: sarà la maturazione (come detto prima) a comprenderne le ragioni: quante cose facciamo nella vita che non ci piacciono! Che ci piaccia o no, questo non è un criterio. Ne esiste solo uno: serve o non serve? La risposta a questa domanda può richiedere una discussione, ma sarà sempre una discussione significativa se si tratta di un confronto con lo scopo e non di confronto su altri criteri.

Mi permetto di aggiungere una osservazione. Visto che queste procedure alla fine vengono sempre decise da qualcuno, io vi chiedo se esiste nelle vostre imprese (tanti di voi sono volontari e magari hanno imprese) o nelle aziende che conoscete o nelle realtà sociali che conoscete, se esiste in tutte queste realtà una decisione, una, che non abbia delle controindicazioni, che non abbia delle sue criticità. Nella mia vita non ho visto una decisione (non sto parlando della vita personale, questo è un altro tema, ma di vita lavorativa) una decisione che non avesse delle criticità. Tutte le decisioni hanno delle criticità. Dopo una ponderazione dei pro e dei contro si prendono delle decisioni che seguono una certa direzione ma questa implica sempre la necessità di affrontare problemi dovuti alla decisone stessa. Chi guida un'opera, una impresa una realtà sociale deve essere cosciente, non deve nascondere questo fatto, non bisogna sottacere o far finta che le criticità non esistano, anzi, io invito a metterle sul tavolo; cosi possono essere affrontate insieme nella massima trasparenza, affrontate e non subite. Però bisogna dare le ragioni delle decisioni prese, bisogna chiarire la ponderazione che è stata fatta dei pro e dei contro. Quindi il problema è sempre se serve allo scopo e se è più probabile che serva piuttosto che non serva. Io sono dell'idea che più siamo trasparenti sulle criticità, più possiamo portare avanti l'essenziale. Se cerchiamo di nascondere le criticità o far finta che non esistano non possiamo andare avanti. Questo vale per le procedure e vale anche per tante altre cose. Le decisioni che riguardano le procedure secondo me non vanno affrontare mai in sé ma "in vista di". E allora possono avere il giusto peso. Faccio un ultimo esempio: la tracciabilità dei beni alimentari è una procedura molto impegnativa che potrebbe anche sembrare esagerata. Volete rinunciare? Penso di no. È troppo importante lo scopo per la quale questa procedura è stata introdotta.

Andrea Giussani - C'era un pezzo di domanda che hai "glissato"; l'altra diceva: "Nella prospettiva dei prossimi anni cosa giustifica l'esserci della Fondazione: è una autorevolezza che si fonda su competenze, specializzazioni, servizi, raccolta fondi, cioè elementi legati al profilo di un soggetto oppure ha una sorta di sua oggettività, un valore “fondativo” che non si riduce a competenze, specializzazioni, etc etc. Quale è lo specifico contributo che una Fondazione può dare?

Bernhard Scholz - Le competenze sono inevitabilmente espressione di una idea di persona, di società, di cultura, di mondo: io acquisisco competenze per seguire un ideale. Se faccio il medico devo possedere le competenze di un medico, ma utilizzerò inevitabilmente queste competenze in vista di una mia convinzione circa la persona umana; analogamente lo farà l’ingegnere, l’insegnante, il manager… la competenza, la tecnicalità, la professionalità, esprime sempre una idea di umanità, anche se questa idea può essere più o meno chiara, più meno esplicita, più o meno cosciente.

Allora la Fondazione deve avere delle competenze al suo interno: per cosa? Per riaffermare un ideale e renderlo presente a livello nazionale: questo è uno dei compiti, adesso non faccio tutto l'elenco però immaginatevi se questo ideale che voi state servendo non avesse una rappresentanza che renda presente (rappresentare vuol dire rendere presente) a livello nazionale questo ideale con tutte le sue implicazioni. Certo voi potete dire: posso anche farlo da solo. Si, per un po' di tempo, poi è finito. Noi dovremmo guardare tutto in una dimensione di medio/lungo termine.

Io non voglio conservare l'oggi, voglio capire come è possibile creare una socialità che i nostri figli potranno riscoprire quando ci sarà da assumere una responsabilità di un Paese che sarà molto più disagiato di come lo abbiamo incontrato noi. In un mondo così dissolto, e sempre più dissolto, tutto quello che crea coesione, collaborazione, condivisione, è decisivo: con tutta la fatica che questo richiede.

La Fondazione è una realtà che fa convergere forze, che rimette al centro l'ideale, che fa anche discutere, che chiede alla singola OBA di uscire dalla autoreferenzialità, che chiede un confronto, che chiede una rivisitazione...non sto entrando adesso in tutti i dettagli. Ma immaginatevi una vita senza confronto: immaginatevi un'opera che se la canta e se la suona, che non deve mai rendere conto a nessuno! Mi potete dire se è meglio ci sia un punto verso cui queste esperienze convergono o è meglio che ognuno faccia la sua esperienza e poi se la tenga per sè? O è meglio che ci valorizziamo reciprocamente per il contributo che possiamo dare? Il problema che uno vive, non può essere una ricchezza per tutti? È più comodo vivere da soli, personalmente, associativamente, imprenditorialmente: è molto più comodo! Ma se questo sia più vero per me e più utile per il mondo ... ci metto un grande punto di domanda.

Duilio, OBA Trentino A.A. - Siccome siamo freschi di colletta: mi ha colpito quello che hai detto. E' vero che noi siamo un esempio di socialità per la società, e questo costa fatica. Carron diceva: che noi dobbiamo lasciare il posto, cioè dobbiamo generare qualcosa; e tu dici è vero questo costa fatica. Io volevo solo documentare, con l'esperienza della colletta, che è vero! Uno può dire: faccio la colletta, ho i miei volontari, tiro su quel che tiro su, non mi metto in gioco con altri. Per me ha voluto dire andare a quattro direttivi degli alpini, subendosi tutto il direttivo...ma questi la colletta la facevano, è diverso, vai lì e gli dai anche qualche dato, gli parli della tua esperienza, e tu vedi che questi cominciano a guardarti e dicono...cavoli, ma quello che io ho sempre fatto è diverso, diventa un bene per me, e costruisce con gente impensabile. Quando mi avevano detto: guarda che vi aiuteranno i Rotary, i Lions... lontano dalla mia mentalità; invece vai a incontrarli e succede che questi fanno la colletta con te e diventa un punto di socialità, un punto di bellezza per tutto il paese: per questo dico che costa fatica ma secondo me genera, e questo io penso che è importante. Il ruolo della Fondazione è stato fondamentale; qualcuno mi ha detto: guarda che quella cosa lì la puoi fare con questo, con questo e con quest'altro. Io da solo non lo avrei mai pensato; questo per dire l'importanza. Oppure anche l'importanza all'interno del Direttivo: litighiamo. Abbiamo accolto l'invito fatto da Andrea (di far partecipare stabilmente un rappresentante della Fbao al Direttivo, nota) e abbiamo invitato Giuseppe, il Direttore Fbao, non è che ci risolve i problemi eh, però, l'idea di avere Giuseppe che dice: guarda che queste cose è inutile che ne parliate voi in Direttivo, voi dovete avere le ragioni adeguate e lo scopo e domandarvi se questo vi serve: ecco io penso che questo sia costruire insieme, del resto se no io dico: io sto bene, perché devo aiutare gli amici del sud, che cosa me ne importa.....è una battuta ovviamente. È per documentare che è vero, costa fatica ma se non si fa questo lavoro ci si perde: allora il ruolo della Fondazione, secondo me, è quello di essere un pungolo, di dirmi guarda che dobbiamo ritornare all'origine, dobbiamo fare questa fatica; e io penso che questo, se non c'è qualcuno che me lo dice, a volte me lo dimentico. Allora io dico: grazie a Dio c'è un luogo, ci sei tu che oggi ci dici queste cose!

Marco, Fbao - Due domande da queste ultime battute: una, visto che tu sei un.... "medico di opere" quindi sfruttiamo la tua competenza, è questa: anche oggi, rappresentando alcuni dati, e sul tema delle decisioni a breve, a medio e a lungo, è evidente dai dati che nel mondo non profit, non parlo del resto, prendere decisioni a medio/lungo è una cosa che quasi sembra "magia"; la prima domanda quindi è: tu che strumenti, che cosa indichi alle imprese perché si impari piano, piano, perché non si pretende di imparare dalla sera alla mattina, quali sono quei passi , quegli strumenti che possono aiutarci a non fare i "maghi" ma a prendere decisioni anche un po' più in là dell'immediato. Seconda cosa mi piacerebbe capire quel "pungolo", che diceva adesso Duilio, nell'operatività che cosa è? Perché se no rimangono intenzioni: bello il pungolo; ma potete confrontarvi (io parlo da Fondazione) anche fra di voi perché ci deve essere la Fondazione? Non è di diritto divino la Fondazione! Fatelo tra di voi, no?! Allora io dico: perché una Fondazione, qualcosa che fa da sintesi? Tu dicevi prima: il corporativismo (visto che è parte del mio mestiere andare a Roma o a Bruxelles) allora: andiamo tutti a Roma? o tutti a Bruxelles? perché così con facciamo corporativismo? Oppure impariamo a non fare i corporativisti però ad avere una sintesi che possa portare dove dici tu? ... ecco, secondo me su queste cose qua, per passare un po' dalle belle frasi a qualcosa per cui torno a casa e dico: comincio a rischiare su quello che il medico mi ha detto, cioè a prendere la medicina, con tutte le conseguenze che dicevi tu prima, però ci provo, la comincio a prendere. Poi fra tre mesi vado dal dottore e dico: funziona o, no, non funziona. Ecco questo passaggio del fra tre mesi verifico e valuto come va la medicina, tendenzialmente non ci interessa, perché facciamo tutti fatica, Bernhard, però valutare la fatica o valutare il successo invece questo... comunque: mi interessava capire meglio questo.

Adele, OBA Veneto - Io riflettevo su quello che dicevi tu prima sulla fatica; e riflettevo sulla mia esperienza di Banco Alimentare (un po' di anni li ho sulle spalle) e cercavo di rifocalizzare il percorso: io sinceramente, al di là della soddisfazione, io ho sempre fatto fatica. Dal primo momento in cui è nato, il Banco Alimentare mi ha chiesto di fare fatica: perché non c'è niente di semplice nel Banco Alimentare. Poi hai delle grandissime soddisfazioni, ma il fare il Banco Alimentare non ha nulla di semplice, è tutta una fatica. Anche rispetto al rapporto con la Fondazione: se io ripercorro la storia mia rispetto alle provocazioni che mi arrivavano dalla Fondazione, dal primo giorno in cui mi è stata presentata l'idea "Colletta"; io mi ricordo che, nella mia giovane età, sono tornata a Verona e ho detto: Facciamo la Colletta! Mi hanno guardato e detto: questa è scema totale! Però il mio approccio rispetto alle proposte che arrivano dalla Fondazione è sempre stato: ok, proviamoci, vale la pena! Però il passaggio successivo è (tornando sempre all'immagine della medicina): non è che a volte bisogna proporzionare la dose della medicina in funzione dello stato di salute complessivo del paziente? Cioè, è vero che tutto fa far fatica ma ci sono fatiche che sono affrontabili e altre che possono essere pianificate nel lungo periodo, ma non necessariamente possono andare bene per tutti in questo momento in cui vengono lanciate; quindi quale è la misura da prendere? Perché è chiaro: nel mio entusiasmo dico sì ci sto, ma poi nella realtà dei fatti, quella medicina lì mi fa bene adesso o forse sarebbe meglio prenderla gradualmente in più anni?

Bernhard Scholz - Allora io parto dall'ultima: non c'è ricetta su questo. È necessario che ci sia un dialogo, su cosa va bene a te in questo momento, su cosa va bene per tutti, su cosa non va bene per tutti ma solo per alcuni.... questi sono classici dialoghi che avvengono tra realtà diverse, quindi anche con la Fondazione, tra di voi etc. Però c'è un modo di vivere questo dialogo come una condizione inevitabile o come una opportunità. Nel primo caso si pensa: "vabbè, sono costretto a parlare con questa persona, vediamo come posso salvaguardare i miei spazi”, nel secondo caso si pensa invece cosi: "cerchiamo insieme di trovare la strada migliore per tutti e due perché ci sia un beneficio per tutti”. Quindi torno a dire quello che ho detto prima: tutto nasce dalla coscienza che ho io, di quello che faccio e del rapporto con l'altro, quindi in questo caso con il Banco. Se io vivo il dialogo con l'altro come un condizionamento che devo accettare perché non posso fare diversamente, è uno scenario di un certo tipo; se lo vivo invece coma una condizione dalla quale possono nascere opportunità, è uno scenario di un altro tipo. Guardate che a livello politico, sociale, anche tra persone, questo è decisivo: cambia completamente la natura del dialogo: è molto diverso se io ti approccio come qualcuno che devo subire o tollerare o se ti approccio come qualcuno che fa parte della mia realtà lavorativa e con il quale vorrei costruire qualcosa di bello e di utile. Dipende dal fatto se io guardo l’altro come qualcuno che sarebbe meglio evitare o se lo guardo come qualcuno che mi è dato per sviluppare insieme qualcosa. Questi sono approcci molto diversi, diversi nella concezione dell’altro e del dialogo con lui. Ogni tanto questo bisogna anche richiamarselo perché non è facile, perché di fronte a problemi più pesanti questa coscienza può anche venire meno.

Vorrei aggiungere una piccola riflessione. Un obiettivo comune, uno scopo comune ha bisogno di essere istituzionalmente rappresentato, se no si perde. Storicamente non esiste una realtà sociale senza che l'ideale che mette insieme le persone abbia una rappresentanza istituzionale. Non esiste una realtà sociale di gente che si mette insieme, di realtà che si mettono insieme, senza che ci sia qualcuno o qualcosa che rende presente, rappresenti l'unità, rappresenti l'ideale. Una socialità, qualunque essa sia, ha bisogno che il punto dove tutto si unisce sia rappresentato, istituzionalmente: istituzionalmente vuol dire che è una rappresentanza che prescinde dalla persona che la rappresenta. Che la persona la debba rappresentare il più possibile con le sue qualità, è auspicabile, ma c'è anche un qualcosa che sussiste senza che la persona sia al cento per cento coerente con quello che rappresenta. Si fa in fretta a perdere di vista l’ideale per il quale ci si impegna insieme, lo scopo per il quale si lavora. Che al centro della scuola siano i ragazzi, che al centro dell'università siano gli studenti, che al centro dell'ospedale siano i pazienti, che al centro di una azienda siano i clienti, che al centro di un’opera sociale siano i suoi destinatari è la cosa meno scontata in assoluto. Perché prima o poi al centro ci sono gli inseganti, i professori, i medici, i dirigenti... e si arriva all’autoreferenzialità della realtà lavorativa e alla snaturazione dell'organizzazione. E questo avviene senza che nessuno se ne accorga... allora se non c'è un punto che richiama ogni tanto lo scopo, le cose si perdono, con buona pace di tutti, se volete anche con la buona volontà di tutti. Questo luogo è per sua natura una specie di provocazione dove le questioni più importanti vengono affrontate, anche in una certa tensione fra le parti. È impossibile che non ci siano tensioni, la domanda è solo se sono produttive o paralizzanti. Non possiamo pensare di far parte di una organizzazione, qualunque essa sia, senza tensioni. Ma nel dialogo teso verso lo scopo tutto può essere valutato e valorizzato. L'uomo per conoscere se stesso e il mondo intorno a sé ha bisogno di dialogo, di confronto, e così anche un'organizzazione.

Ora, il lungo termine: anche se non pianifichi a medio /lungo termine hai già pianificato di metterti a repentaglio di quello che capita. Quindi non è che puoi "non decidere": la domanda è solo se di fronte a mille incognite, a mille imprevisti, tu cominci ad ipotizzare una traiettoria della quale sai esattamente che non sarà esattamente quella, però senza avere una traiettoria non sai neanche più dove sei. Faccio un esempio: se io decido di andare stanotte a Lisbona, e parto, poi hanno chiuso per una frana una strada, poi la macchina si ferma, poi devo prendere il treno, poi...poi...poi... però a Lisbona voglio arrivare. Però se io non ho deciso di andare a Lisbona...alla prima curva potrebbe essere Marsiglia o Roma...no io voglio andare a Lisbona e faccio di tutto per arrivarci. Quindi uso strumenti, conoscenze, competenze per arrivare a Lisbona. Quindi l'idea è: ma il Banco fra tre anni dove deve stare? E lì devo lanciare una ipotesi, perchè se non lancio una ipotesi, non sprigiono energie, non sprigiono competenze, creatività, gente che si butta, che va a verificare, e così via. Quindi è assolutamente decisivo che ci sia una pianificazione; poi può darsi che diciamo che non ce la facciamo proprio, ma lo diciamo di fronte ad una ipotesi, non di fronte al nulla. E quindi la decisione di non andare a Lisbona ma di fermarci a Madrid sarà una decisione che abbiamo maturato di fronte ad una pianificazione originaria. Noi non possiamo, se abbiamo un ruolo in una organizzazione, non pianificare: dobbiamo pianificare, con i mezzi che abbiamo, con i rischi che corriamo. Chi non pianifica non ha mai un paragone. Una organizzazione che non ha uno scopo si atrofizza e la litigiosità aumenta, perché le persone non possono stare insieme senza scopo. Se tu metti insieme persone, nel piccolo e nel grande, senza scopo prima o poi si scontrano, perché la natura dell'uomo è un "andare verso" e se questo "verso" non viene condiviso, la gente si smarrisce e litiga. Tant'è vero che c'è una regola organizzativa molto semplice: se tu metti persone insieme senza scopo, ognuno tira fuori prima o poi il suo peggio, e soprattutto vede nell'altro il peggio. Se tu metti le persone di fronte ad una sfida importante, ognuno tira fuori il suo meglio e tende a stimare l’altro per il suo impegno. Guardate alle vostre esperienze: è così. La letargia è una cosa pazzesca, nel senso letterale: fa impazzire! Il pungolo! Il pungolo è proprio questo: se tu non hai un punto di riferimento che ti costringe ogni tanto a pensare a ciò che fai, come lo fai, perché lo fai, se non ci sono altre opportunità o altre strade possibili.... prima o poi ti atrofizzi.

La medicina va verificata, sono d'accordissimo! Per questo ci vuole una giornata come oggi: ci si vede, si verifica, si vede dove siamo e dove possiamo andare. E' impossibile che siamo sempre tutti d'accordo, però c'è l'idea di vedere e capire. E questo è necessario, anzi, è parte strutturale di un consesso come questo: che tu verifichi, strada facendo. Siamo a Madrid, siamo a Lisbona, siamo a Marsiglia, dobbiamo cambiare strada, prendere il treno, l'aereo, la macchina, etc. cioè questo fa parte del dialogo. Però ripeto ancora una volta: per me, nella mia esperienza è fondamentale non marginale la cultura del dialogo. Se la cultura è quella di fidarci reciprocamente o è quella di una diffidenza per cui sostanzialmente io non mi fido che tu voglia dare il tuo meglio per il nostro scopo comune. Occorre una pre-stima, una pre-fiducia, altrimenti c'è una pre-disistima, una pre-sfiducia. Che questa fiducia debba essere reciproca, su questo sono d'accordissimo. Ma ricordiamoci che chi dà fiducia tende a ottenere fiducia, chi comunica sfiducia non otterrà mai fiducia.

Stefano, OBA Emilia Romagna - Io mi aggancio a questa cosa che dicevi, sia prima rispetto alla tensione, sia adesso, perchè si nota, a volte, che le regole che ci siamo dati in alcuni campi (food raising e fundraising per esempio) sono da alcune OBA disattese, più o meno coscientemente. E mi chiedevo come comportarsi, anche e soprattutto, in virtù del PATTO (per me non formale) che ci lega come Rete? Se ne deve occupare FBAO o si deve “discutere” tra noi? Capisco che sono argomenti un po' terra, terra, volo un po' più basso rispetto a quello che dicevi prima però, visto che ci siamo detti di entrare nel pratico...mi interessava questo. Altra cosa è, anche questa abbastanza terra terra: in vista del rinnovo del Consiglio e delle cariche della prossima primavera è mia convinzione, condivisa anche con altri Presidenti con cui ci si parla, che ci sia bisogno di più RETE in FBAO, cioè un maggior numero di Consiglieri che vengano dal mondo delle OBA: tu cosa ne pensi?

Bernhard Scholz - Se tu fai una proposta o hai una idea diversa rispetto a quello che c'è, devi portare le tue ragioni, e queste ragioni devono essere ragioni che portano acqua al mulino di cosa? Della riduzione dello spreco in Italia e che i più poveri possano essere aiutati attraverso questa riduzione. Questo è l'unico criterio che conta, sull'Italia e sul tuo territorio. Quindi se tu pensi che se ci fosse più Rete in CDA Fbao sarebbe meglio per i poveri e per il minor spreco, mi devi dimostrare le ragioni. Perché in buona sostanza stai dicendo: "quelli che ci sono adesso non ci arrivano! ci vuole più gente che abbia competenze diverse perché questo accada". Quindi, insisto che è importante che si faccia un lavoro per arrivare a queste cose, perché se questo lavoro non si fa, seguendo forse anche il suggerimento di qualcuno, sarebbe dannoso, perchè si arriverebbe a delle decisioni senza aver riflettuto fin in fondo sulle ragioni. È invece preziosissimo il lavoro per arrivare ad una decisione, perché fa emergere tutto il potenziale che è presente. Ti posso dire, terra, terra anch'io, se il criterio fosse "Non vogliamo avere rogne con la Fondazione" sarebbe sbagliato: questo non è un criterio. Ogni decisione che voi prendete, dalla gestione del magazzino, all' assunzione delle persone, a come trattate i volontari, proprio a tutto, il criterio è solo uno: meno spreco e più poveri che abbiano qualcosa da mangiare. Questa è l'unica cosa che conta. Tantissime discussioni prescindono dallo scopo ultimo dell'Organizzazione dalla quale vengono prese. Di più non posso e non voglio dire perchè la mia idea potrebbe anche essere basata su una impressione, perché non conosco i fatti decisivi, - so qualcosa evidentemente – ma non so abbastanza per poter dire "così o cosà"... però il criterio è quello. E questo tra l'altro è un criterio che mette insieme tutti. Non è un criterio che vale per alcuni e per altri no. Sarebbe anche molto interessante discutere di cosa vuol dire che una realtà locale sia autonoma e di quale natura sia la relazione che ha con gli altri banchi. Forse esiste anche una certa "orizzontalità" nelle relazioni; prima avete parlato per esempio del "nord-sud".

Stefano OBA Emilia Romagna - infatti la facciamo già, per quello che i riguarda, con altri banchi....

Bernhard Scholz - Benissimo! se però tu dici "più Rete in CDA Fbao" può darsi che sia giusto, può darsi di no - non sarà mai tutto sbagliato o tutto giusto - sarà più adeguato meno adeguato -usiamo parole più sensate - perché una cosa è più adeguata o meno adeguata rispetto allo scopo. Tutto ha dei rischi. Quindi la domanda è invece: "Rendiamo il sistema più efficace rispetto agli scopi - non dando mai per scontato che al centro di quello che noi decidiamo ci sia sempre la finalità ultima dell’opera.

Siamo tutti molto “impressionati” dai rapporti, dalle persone che conosciamo, dai problemi e dalle criticità che incontriamo. Sono impressioni che lasciano una traccia in noi e quindi occorre una certa ascesi per rimettere a fuoco ciò che veramente conta. Non è scontato! E questo vuol dire ogni tanto richiamarsi a questo fraternamente. Andiamo a vedere le ragioni per le quali si propongono certe cose: "Per quale ragione proponi questo?". Soprattutto se abbiamo le mani in pasta è quasi più difficile porsi queste domande ed è la ragione per la quale ogni tanto qualcuno che viene "dall'esterno" che ci provoca con questi ragionamenti, è di aiuto. Quando siamo immersi nella mischia siamo spesso molto invischiati dalle tante problematiche, siamo spesso molto reattivi sulle cose che non vanno invece che essere concentrati su quello che potrebbe andare, facendo molti più ragionamenti "ex negativo" invece che "ex positivo".

Giancarlo, Fondatore - Vorrei rimettere in rapporto la domanda che ti è stata fatta e la tua risposta con un'altra cosa che tu hai detto prima a riguardo del fatto che, perché un'esperienza continui, ci vuole un luogo che la custodisca. È il tema del Vescovo per analogia, del Pastore delle pecore... diciamo un luogo che custodisce, che ha come sua missione custodire lo scopo ultimo e trasmetterlo, mantenerlo vivo. Praticamente però la domanda che ti è stata fatta ha a che fare con la questione: "Ma come si forma questo luogo?" Io ho fatto parte del CDA e sono stato nominato dalla CDO all'epoca; cioè non sono passato al vaglio del consenso di base di nessuno; poi abbiamo affrontato la riforma dello Statuto. Per me è stata una esperienza interessantissima e si è arrivati a cambiare una serie, per così dire, di regole di formazione del luogo, però c'è anche un'altra questione, su cui ci sono già implicitamente molte tue indicazioni.... però: dopo che questo luogo si è costituito è l'esercizio dell'autorevolezza o, usiamo una parola più organizzativa, è l'esercizio della leadership che deve essere fatto in un certo modo. Cioè: non è di per sé garanzia di apertura, dialogicità, ascolto il modo in cui si formano i rappresentanti; la garanzia è nelle caratteristiche dei rappresentanti e nel modo in cui punto primo: lavorano tra di loro i rappresentanti, dentro al Consiglio! Comunque la natura del luogo ha una sua struttura: se io sono il professore pinco pallo faccio il professore ma se mi eleggono direttore del Dipartimento ho un'altra responsabilità, ho un'altra funzione...si chiama anche "carisma di status". Voglio dire...molti mugugni sono stati non sulle regole di accesso ma sulle modalità di svolgimento del ruolo di garante. Hai qualche indicazione di metodo? Siccome hai insistito tanto sulla natura dialogica dell'io in relazione con glia altri, questo deve valere dieci volte di più per chi ha un compito di leadrship, immagino, però....

Bernhard Scholz - Io vorrei dare un esempio molto pratico, poi rispondo. Quando ho saputo che come CDO dovevo nominare sette membri del CDA di Fbao ho detto qui va cambiato lo Statuto. Ai tempi si è fatto così perché si era pensato che occorresse un luogo che garantisse il persistere dell'ideale: la CDO. Però ad un certo punto, un'opera deve avere la possibilità di rigenerarsi da sé in continuità. Mi ero reso perfettamente conto che questo avrebbe creato un problema, e ha creato un problema, perché elaborare uno statuto cosi come lo troviamo oggi non è stato una passeggiata; infatti stiamo ancora oggi discutendo esattamente sul punto della composizione del CDA e quindi della genesi della leadership di questa grande opera. Io credo che una organizzazione deve avere la capacità di generare dal di dentro persone che rappresentino al meglio l'esperienza anche dal punto di vista ideale e le deve poter nominare per gli organi di guida. Ma deve avere la capacità di nominare persone dall'esterno, perché la relazione con l'esterno è decisiva per evitare che un'opera diventi autoreferenziale. Chi viene dal di dentro dovrebbe essere in grado di riconoscere l'ideale a partire dall'esperienza che fa, di rendere presente l'ideale nelle sue implicazioni operative, di valorizzare quello che c'è rispetto all'ideale, oppure di correggere quello che c'è, rispetto all'ideale. E chi viene dall'esterno deve saper valorizzare con le sue competenze specifiche il potenziale presente nell’organizzazione e sostenere la crescita dell’opera. Questi sono in sintesi i criteri che mi hanno portato a fare questa proposta di cambiamento di statuto. E questo può avvenire solo in un dialogo, perché non esiste più l'organizzazione padronale, in cui c'era uno solo che decideva tutto. Questo oggi non è più possibile, anche per la complessità del mondo in cui viviamo. Questo non toglie la necessità di ultimo rappresentante che deve essere una persona capace di dialogare, di ascoltare, però anche di decidere. Un organo ha il compito di decidere. Negli USA hanno fatto una indagine con una domanda molto semplice: perché un bravo CEO (Chief Executive Officer) è un bravo? Sono emersi a due criteri, due caratteristiche: erano persone molto umili, nel senso che ascoltavano, osservavano...e al contempo erano persone molto determinate, e questo mix fra capacità di dialogo, di ascolto ma poi anche di determinazione è quello che rende tale un leader, con o senza carisma... Questo vuol dire che oggi una persona che guida non può non ascoltare perché il mondo è troppo complesso per poter decidere con le poche cose che sa: deve conoscere bene le situazioni ma ad un certo punto deve decidere e non esiste, come detto prima, una decisione che non abbia controindicazioni. E lì si rivela la capacità di determinazione di uno che guida veramente. Perché io non vado in una direzione perché non sono cosciente che tu hai delle obiezioni: ne sono perfettamente cosciente, ma ho valutato che le obiezioni che tu porti non sono sufficienti per mettere in crisi quello che in quel momento penso sia giusto. Questo si può deciderlo collettivamente a livello di CDA, o in certi momenti lo decide il Presidente, o il Direttore, o chi per lui. Il fatto che ogni decisione nasca da una ponderazione dei “pro” e dei “contro” vuol dire concretamente, che spesso ci sono persone che non sono d'accordo in parte o in generale. Allora tu non ti puoi fermare perché qualcuno non è d'accordo: lo devi rispettare, devi dare le tue ragioni, ma non puoi pretendere che lui faccia la stessa tua valutazione, perché per te sono 60 pro e 40 contro e per lui sono 60 contro e 40 pro. Però una organizzazione senza uno che decide va in frantumi, non persiste. Se non decidi, fai male e una delle cose peggiori che può succedere è non decidere: questo è peggio di una decisione sbagliatissima. Allora il tema è se le persone che decidono siano capaci di dialogo ma anche di una certa determinazione. Poi avete il diritto sacrosanto dopo quattro anni di dire: "questo ha preso continuamente decisioni che non ci vanno bene, quindi basta, prendiamo un altro" ma chi guida deve decidere. Comunque, la domanda è: "Perché nel Banco si decida al meglio rispetto allo scopo, non rispetto a quello che voglio io, allo scopo comune, come deve essere composto dal punto di vista del personale il CDA?" Questa è la domanda. E può darsi che qualcuno dica: "questa persona non mi piace più di tanto, non sono sempre d'accordo ma è una persona estremamente competente e affidabile: la mandiamo lì". La consapevolezza di una competenza in un mondo complesso, è decisiva, perché la complessità fa sì che io, di tantissime cose, non capisco niente e quindi un sistema così complesso richiede la fiducia in persone che sanno quello che io non so e lo usano per lo stesso ideale per il quale io mi impegno. La domanda centrale è questa: "come faccio ad avere persone di mia fiducia che in termini di competenza e di esperienza portino avanti l’organizzazione della quale faccio parte?”. Senza fiducia, competenza, esperienza, un sistema così muore; non è che va male: muore. Vi prego di non sottovalutare né la competenza, né l'esperienza - ognuno di voi in questo momento per la parte che ha propende per l'una o l'altra – ma è il mix che è vincente.

Salvatore, OBA Piemonte - Un brevissimo inciso: sono assolutamente d'accordo su quello che dicevi; ci tengo a sottolineare che, senza entrare adesso in aspetti tecnici che affronteremo magari anche domani, ti confermo che è stato oggetto, nella parte finale del CDA di questa sera, proprio il tema che tu hai posto in questo momento: di fronte alle sfide molto impegnative che sappiamo essere non tra due anni ma tra qualche mese; per cui è stato un oggetto che ci siamo ripromessi di riaffrontare, per quello che compete come responsabilità all'attuale CDA di individuare alcune delle dinamiche con cui si definirà la nuova compagine. In questo sono assolutamente convinto che ci sia una altrettanto identica preoccupazione, e in parte qualcuno lo ha già espresso e un po' ne stiamo parlando anche tra i Presidenti; una preoccupazione seria da parte di tutti noi proprio per quanto tu oggi ci hai ricordato in chiusura.

Andrea Giussani - Facile la decisione di dire che...andiamo a nanna. Non prima però di avere ringraziato Bernhard per il tempo che ci ha dato ma soprattutto per l'attenzione e l'amicizia con cui segue il Banco più o meno da lontano ma spesso molto da vicino: uso la parola amicizia perché credo non ci sia maggior amicizia di quella che si interessa al destino delle cose o delle persone di cui è amico e sicuramente vi posso garantire, ma molti di voi lo provano e lo testimoniano, che l'amicizia di Bernhard sta proprio nella cura di quest'opera, di questa presenza, della nostra relazione, nella possibilità di essere incisivi nella nostra società che ne ha tanto bisogno. Grazie Bernhard, grazie a tutti voi dell'attenzione!