Sentirsi parte di un fiume di vita

Verso fine anno, a scuola, le mie professoresse hanno fatto girare il calendario dei PON (Programma Operativo Nazionale), con alcune proposte di incontri.

 

“Banco Alimentare, servizio alla mensa del Boccone del Povero di Palermo, visita al carcere minorile di Palermo, gita a Centuripe dal titolo, …”. Incuriosita – anche dal fatto che i miei genitori hanno una associazione che si occupa di famiglie povere – ho deciso di iscrivermi.

 

È stata una esperienza in-de-scri-vi-bi-le. Ogni volta dicevo: “questo incontro è stato il più bello!” e invece poi ne arrivava un altro che mi lasciava sempre più contenta. È stato davvero un viaggio: tante realtà che né io né i miei compagni conoscevamo, ma soprattutto tante persone che ci hanno raccontato la loro storia, un fiume di vita. Ma la cosa più bella è che noi ci siamo sentiti parte di questo fiume di vita, di queste storie, che molte volte ci hanno lasciato senza parole ma che allo stesso tempo ci facevano venire fuori un sacco di domande. Non posso raccontarvi tutto, anche se ogni fatto o persona di questo viaggio è preziosissima e meriterebbe un racconto speciale.

 

Vi dirò solo quello che ho imparato e che rimarrà per sempre vero. Ho imparato che nessuno di noi è uno scarto, anche quando arriva il fallimento e tutto sembra perduto. La persona, ogni persona, non è un vuoto a perdere, un oggetto che se si rompe si butta. No! Perché sempre si può essere riparati. Come? Con l’amore. Ho imparato che c’è sempre una nuova occasione, ma da soli è impossibile. Ci vuole uno sguardo, un amico che ti dice: "ehi guarda! Hai perso tutto, ma una cosa ce l’hai. Tu hai il desiderio di essere felice, hai ancora il desiderio di qualcosa di bello e di buono per te e per il mondo intero. E questo ti cambia se tu ci stai".

 

Sembrano favole, ma non lo sono. Sono le storie dei ragazzi detenuti che abbiamo incontrato e le storie di chi si prende cura di loro…. “persone eccezionali” diresti tu. E noi infatti glielo abbiamo chiesto: ma lei come fa a stare con questi ragazzi e a prendersi cura di loro? Non ha paura di essere delusa da loro? Cosa ha imparato da tutto quello che ha vissuto? E ci hanno riposto che non potrebbero fare altrimenti, anche se è dura e spesso si fallisce. Perché se facessero altrimenti sarebbe come tradire se stessi, il proprio desiderio.

 

Favola non è quello che ci è successo alla mensa. Uno non si immagina finché non vede. C’erano uomini e donne giovani come i nostri genitori, con i loro figli, non solo anziani o uomini soli. Vedere ciò ha fatto cadere l’idea con cui eravamo arrivati: ci sono loro che sono poveri e noi che siamo più fortunati e noi è giusto che ci prendiamo cura di loro. E invece non sapevamo più che fare. Ma a poco a poco abbiamo visto come queste persone stavano con i volontari della mensa mentre gli altri volontari finivano di preparare la cena e quando ci siamo avvicinati ai tavoli per porgere i piatti, il nostro cuore si è riempito di gioia e allora li abbiamo guardati. Avevo detto che non lo avrei fatto per non farli vergognare. E invece li ho guardati perché avevo il cuore pieno di gioia, e anche loro mi guardano e mi sorridono e mi chiedono da dove arrivo e come mi chiamo.

 

Però ho capito quello che ci è successo alla mensa e al carcere e negli altri incontri che abbiamo fatto solo alla fine del PON, quando insieme alla prof. abbiamo studiato i pannelli di una mostra sul Banco Alimentare perché poi avremmo fatto da guida durante una manifestazione. Ora proprio nel pannello che è toccato a me si racconta che il Banco Alimentare non è nato da un progetto per sfamare i poveri, ma da un incontro. L’incontro fra il ricco industriale proprietario della Star che si chiamava Danilo Fossati e un prete, che si chiamava don Luigi Giussani. Quell’incontro secondo me è stato come la benzina che ha acceso il cuore di Danilo Fossati, che anche se era molto ricco e non gli mancava niente, soffriva da sempre di una inquietudine. Era lo sguardo di don Giussani e quella frase “lei ha un cuore grande, come quello di sua madre”, quello di cui Fossati aveva bisogno, cioè sentirsi amato non per quello che era capace di fare e che possedeva, ma per il suo cuore.