La Rete Banco Alimentare incontra Julian Carron

Il testo che pubblichiamo riporta una conversazione che i Responsabili della Rete Banco Alimentare, Presidenti, Direttori delle OBA (Organizzazione Banco Alimentare) e collaboratori della Fondazione Banco Alimentare hanno avuto con Julian Carron, presidente della Fraternità di Comunione e Liberazione, nel giugno scorso. Un’occasione privilegiata per approfondire le ragioni che ogni giorno ci spingono ad affrontare lo scopo di quest’opera. L’incontro si colloca anche in un percorso di riflessione già in atto in vista del Trentennale del 2019, soffermandoci su temi ideali e organizzativi che hanno portato il Banco Alimentare e tutti i suoi collaboratori, amici e partner a crescere e a riconoscersi nella attuale identità umana e operativa, ben apprezzata, crediamo, tra chi lavora con noi.

Per questo, dopo una prima fase di approfondimento dei contenuti e ripresa negli ambiti più “interni”, abbiamo deciso di metterla a disposizione di tutti, certi di farne un dono utile a tutti coloro che hanno a cuore questa opera.

 

Andrea Giussani. Abbiamo chiesto questo incontro con Julián, che si colloca all’interno del percorso che stiamo facendo in vista del trentennale del Banco Alimentare (l’anno prossimo compiamo trent’anni), per un approfondimento e un rafforzamento delle motivazioni di questa opera. Il trentennale è una provocazione, però di fatto la provocazione l’abbiamo tutti i giorni.

Julián Carrón. Il Banco non vi risparmia la sfida.

Giussani. Sì, direi proprio di sì, soprattutto non risparmia a nessuno di incontrare volti che ti provocano a una risposta. Sono qui presenti i presidenti delle ventuno organizzazioni del Banco Alimentare – che noi chiamiamo OBA –, i direttori e alcuni volontari e dipendenti della Fondazione Banco Alimentare, cioè le persone responsabili della conduzione e dell’operatività dell’intera rete. Come sapete tutti, vi avevo chiesto di mandare anticipatamente delle domande, che ho provato a raggruppare in quattro temi. Quello che ti chiediamo, ovviamente, è di rispondere ed eventualmente anche di provocarci ulteriormente.

Carrón. Meglio così, perché a volte si capiscono meglio le domande, se uno documenta da dove nascono, qual è la circostanza che le ha fatte sorgere.

Giussani. A dicembre, avremo un’assemblea come questa con Bernhard Scholz, nella quale cercheremo di approfondire di più i temi operativi, cioè l’altra faccia della medaglia.
Il primo gruppo di domande si riferisce al rapporto tra il valore ideale del Banco e l’operatività concreta; credo valga per tutte le opere che conosciamo, ma in questo caso nasce proprio dalla storia del Banco Alimentare: «Negli anni il Banco Alimentare è molto migliorato in termini di efficienza quantitativa, siamo diventati una specie di azienda alimentare medio-piccola, con le sue regole e la sua organizzazione, seppure un po’ particolare. Che cosa ci distingue da una qualunque altra realtà di impresa? Qual è il nesso tra efficienza operativa e valore ideale? Forse ci distingue l’origine, oppure l’esperienza di volontariato, oppure il desiderio di rispondere al bisogno e il tentativo di vivere e testimoniare Cristo dentro la realtà. Come possiamo far sì che questa differenza tra un’impresa “normale” e un’opera come la nostra sia visibile a tutti?».

Carrón. Sono io a essere curioso di sentire da voi che cosa distingue una realtà come la vostra, così particolare; in che cosa, nel farla, vedete la differenza? Lo dico perché, secondo me, è nella condivisione di quello che viviamo che si può trovare una risposta. Una risposta, infatti, nasce sempre dall’esperienza, non da un discorso, perché è nell’esperienza che possiamo capire veramente la differenza delle parole che usiamo, quale sia il valore ideale e che cosa significhi questo valore ideale rispetto all’operatività. Facciamo degli esempi: tutti noi siamo implicati in “opere” – uso il termine in senso lato −, nella vita personale e nella vita sociale. Pensate alla famiglia: è un’opera; sempre siete coinvolti nel lavoro, con la moglie e i figli, nei rapporti gli uni con gli altri e tra di voi. Che cosa vuol dire per la vostra operatività l’origine del Banco? Andando avanti nei vostri rapporti, la consapevolezza dell’origine, dell’inizio, si è incrementata o è andata perduta? Si può toccare ancora con mano la differenza della vostra opera oppure no? È la grande questione, altrimenti l’origine va a farsi benedire e così vi trovereste ad affrontare la realtà come tutti. Quindi, è soltanto facendo degli esempi che uno si rende conto se la strada che fa nella vita lo rende più entusiasta perché vede che il compimento dell’origine fa diventare tutto assolutamente più interessante per sé, prima di tutto, e poi per gli altri. Se questo non accade, allora vuol dire che abbiamo perduto per strada qualcosa dell’origine. Per questo, a volte, ripeto la frase di Eliot: «Dov’è la Vita che abbiamo perduto vivendo?» (I Cori da “La Rocca”, Bur, Milano 2010, p. 37). Noi possiamo perdere la vita

vivendo oppure, alla rovescia, possiamo guadagnarla vivendo. Come accade anche in famiglia: la vita può rendere sempre più entusiasti del rapporto con la moglie o il marito, o al contrario ci si può dare tutte le giustificazioni possibili e immaginabili del decadere del rapporto. Capita lo stesso in ogni opera: se essa conserva e incrementa sempre di più il nesso con l’origine, con l’ideale da cui è nata, la sua diversità si tocca con mano nei rapporti con le persone che si incontrano, nella modalità di gestirla, e così diventa visibile a tutti. Altrimenti si perde strada facendo. Non penso che una realtà come la vostra faccia eccezione, così come non fa eccezione nemmeno la fede, perché la coscienza dell’incontro che ha affascinato la vita, a un certo punto, può venir meno; oppure, proprio affrontando tutta la vita, può crescere; e allora la fede diventa sempre più entusiasmante, perché uno si rende conto del suo valore rispetto a coloro che non hanno la grazia di poter affrontare la vita con un dono come questo. Questa è la grande sfida che abbiamo davanti, in tutto quello che tocchiamo. Per questo con la vostra opera, in fondo, state facendo costantemente la verifica se avete qualcosa che vi rende diversi, altrimenti potrà incrementarsi l’organizzazione, potrà incrementarsi il volume dell’opera, potrà incrementarsi l’operatività, potranno crescere le sue dimensioni e intanto l’inizio può finire nella tomba; oppure può “esplodere” fino alle stelle. In che cosa possiamo vedere che cresce l’ideale? Attraverso quali segni possiamo vedere che condividiamo sempre di più l’impeto ideale? Lo verifichiamo in qualunque situazione: per esempio, quando viene meno l’impeto ideale in campo educativo, con che cosa lo si sostituisce? Con delle regole. Con che cosa si sostituisce l’impeto della fede? Rendendo tutto moralistico. Come si vede se viene meno l’impeto amoroso? Perché il rapporto diventa: «Tu fai questo, io faccio questo e alla fine facciamo i conti». Come si vede se l’ideale permane in voi? Se nel tempo non vi preoccupate semplicemente di rispondere a tutta la complessità dell’organizzazione, ma se, facendo quel che dovete fare, non viene meno la freschezza dell’inizio che vi ha messo insieme, che vi faceva lavorare in un certo modo, che ci faceva stare insieme in un certo modo perché tutto era come un vortice di entusiasmo e questo si trasmetteva in tutte le cose che facevate. Quando questo viene a mancare, dobbiamo moltiplicare all’infinito le regole per andare avanti. Lo vediamo nella scuola: più viene meno l’impeto educativo, il fascino di quello che si fa e l’entusiasmo dei professori, e meno entusiasmo c’è negli studenti; di conseguenza, per tenerli a bada si incrementano le regole. Le mie sono solo esemplificazioni, per aiutarvi a cogliere certi indizi, per intravedere se nella vostra esperienza l’origine si è incrementata o se è venuta meno e che cosa può contribuire a recuperarne la consapevolezza. Perché può crescere l’opera come organizzazione e allo stesso tempo può crescere lo scetticismo rispetto alla vita. Non è detto, infatti, che il fare qualcosa per gli altri serva a noi, incrementi automaticamente la nostra vita. Paradossalmente, in un’opera come la vostra, dove uno dà con tanta generosità, impegnando tanto tempo e tante energie, si può vedere come questo è insufficiente: infatti, mentre rispondiamo al problema del cibo, possiamo comunicare una diversità umana, ed è questo che stanno aspettando tutti: trovare, oltre quello di cui hanno bisogno, una risposta, intravedere una riposta a un bisogno più grande. Se quando collaboriamo a rispondere a un bisogno come il cibo ci dimentichiamo che «non di solo pane vive l’uomo», non comunichiamo ciò di cui la gente ha veramente bisogno. Se nel modo di stare con loro, di rapportarci tra di noi, coloro che entrano in rapporto con noi non intravedono che viviamo per un’altra cosa, la nostra generosità potrà essere benemerita, potrà essere perfino da trenta e lode, ma non serve a noi per tenere desta l’origine e quindi per incrementare sempre di più, nel modo di dare, nella diversità con cui lo facciamo, la riposta a tutto il bisogno dell’altro. Come vediamo bene oggi, le ferite riguardano tutto l’umano, non solo un aspetto del vivere. Noi entriamo in rapporto con le persone attraverso una particolare necessità, ma quello di cui hanno bisogno è ben altro! Lo vediamo, per esempio, quando “tocchiamo” la persona concreta a cui tutta la grande organizzazione del Banco arriva, quando entriamo in rapporto con il bisogno di quella persona lì.

Viaggiando per il mondo, incontro tante opere nei Paesi in via di sviluppo: immaginate la quantità di lavoro necessaria per mettere in atto un programma che risponda a un bisogno, a tutti i passi da fare: dal presentare il progetto alla sua approvazione, reperire i fondi e mettere in piedi tutta la macchina organizzativa; ma se nell’ultimo miglio, quando tutto questa massiccia opera di generosità arriva alle persone, non c’è nessuno che porta lo sguardo da cui è nato tutto, io mi domando: a che cosa serve tutto il resto? È giustissimo darsi da fare, non voglio togliere nulla. Ma se la quantità sterminata di soldi investisti e di energie spese non lascia alcun segno in termini di sviluppo delle persone (che ritornano a vivere peggio di prima quando, per una crisi economica, perché i fondi finiscono o perché il programma è a termine), se l’opera non ha incrementato la persona, che anzi si trova in una condizione peggiore dell’inizio, a che cosa serve? La persona è tutt’una, non è solo il suo bisogno materiale. Lo dico per valorizzare tutto il vostro tentativo, tutta la vostra generosità, tutto il tempo che dedicate; se rispondendo al bisogno particolare non avvertite l’esigenza di incrementare la persona nella totalità del suo io, vi domando: «Potete accontentarvi di questo?». È una domanda che lascio aperta, perché ci spinga a cercare di non mancare all’origine, perché «all’inizio fu così». All’inizio il Banco non era sviluppato come oggi, ma c’era tutto quell’impeto per cui, mentre rispondevate al bisogno, comunicavate voi stessi. Secondo me, questo non potete perderlo. Perché? Perché quello che avete ricevuto vi è stato dato per fare una cosa diversa e sarebbe un peccato se lo perdeste strada facendo. Non occorre aggiungere niente di particolare, basta semplicemente che il rapporto tra di voi, che il vivere insieme tutte queste cose, che tutte le ore spese, siano un farvi una compagnia così adeguata al vostro bisogno da sentire voi per primi questa compagnia come più pertinente di qualunque pur grandissima organizzazione. Non sto mettendo in contrapposizione l’una e l’altra cosa, perché potete organizzarvi benissimo – anzi, anche meglio − con dentro questo calore, con dentro questo ideale, con dentro questa passione, che servono prima di tutto a voi, senza che questo vada a scapito dell’aspetto organizzativo, tanto è vero che può incrementare anche l’intelligenza con cui rispondere alle questioni operative. Per questo penso che il Banco Alimentare sia prima di tutto una sfida per voi, per la verifica di quello che fate, perché accontentarsi con meno di questo non vi basterà per continuare a farlo con tutto l’entusiasmo dell’inizio. Questo vale allo stesso modo per me che sono prete; qui nessuno ha già chiuso la partita, nessuno è esente dalla sfida, ciascuno la vive sulla propria pelle. Accompagnarci in questo, secondo me, è lo scopo di un rapporto, di un’amicizia.

Giussani. Proprio su questo tema della motivazione personale, della crescita, dell’esperienza e del valore ideale, che ognuno può verificare sulla strada che sta facendo in quest’opera, oltre ad altre cose che ha nella sua vita, una questione di cui ogni tanto parliamo, e quindi ti chiediamo in qualche modo di aiutarci a risottolinearla o a richiarirla, è in che modo possiamo vivere meglio quest’opera e tutti gli stimoli che ci dà lasciando da parte i personalismi e un modo di dirigere tutto centrato su di noi.

Carrón. Questi personalismi non vi servono, perché sono come accontentarsi delle briciole. I personalismi sono inutili rispetto a tutto il desiderio e il bisogno che abbiamo. Se uno non si rende conto di questo, non risolverà il problema con una chiarezza di idee, ma solo vivendo su un pieno, facendo esperienza di una sovrabbondanza. Se uno non vive una sovrabbondanza, si attacca alle briciole. Questo è inevitabile, perché non siamo scemi e neppure angeli: il desiderio, l’urgenza che abbiamo di una pienezza è così costitutiva dell’io di ciascuno di noi che solo se viviamo sovrabbondando di un’altra cosa possiamo liberarci di tutte queste sciocchezze – perché questo sono i personalismi −, che sono niente rispetto a quello che ci perdiamo! Perciò è un problema di intelligenza. È la nostra intelligenza a essere sfidata, non la nostra capacità etica. Siamo così poco intelligenti da scambiare l’esperienza di una sovrabbondanza con le briciole del personalismo? Saremmo fuori di testa! La questione è che cosa ci rende così sovrabbondanti da non dover inseguire le briciole. Può essere solo l’origine che ha dato inizio a questa opera: vivere la fede così intensamente che tutto il resto risulti insufficiente, perché tutto è poco, «piccino» per la capacità del nostro animo. Se uno non capisce che la vera sfida è a questo livello, perché dovrebbe rinunciare a una cosa cui è attaccato? Vi leggo un testo di von Balthasar, che descrive molto bene che cosa è in gioco: «In un mondo senza bellezza [...] anche il bene ha perduto la sua forza di attrazione, l’evidenza del suo dover-essere-adempiuto; e l’uomo resta perplesso di fronte ad esso [a fare il bene. Nella nostra epoca lo vediamo chiaramente] e si chiede perché non deve piuttosto preferire il male [perché non devo preferire il male, il personalismo, una cavolata, le briciole? Perché no? Infatti] Anche questo costituisce [...] una possibilità, persino molto più eccitante. [Perché no? Fare il capetto in un certo posto, accontentarmi delle briciole, come la stima degli altri. Perché no? In fondo, ha anche un suo fascino]. [...] In un mondo che non si crede più capace di affermare il bello, gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica [possiamo enunciare tante verità, ma questo non ha più la capacità di convincerci]. I sillogismi [gli argomenti, le frasi, i discorsi] [...] ruotano secondo il ritmo prefissato, come delle macchine rotative o dei calcolatori elettronici che devono sputare un determinato numero di dati al minuto [come può capitare a voi: distribuire cibo], ma il processo che porta alla conclusione è un meccanismo che non inchioda più nessuno e la stessa conclusione non conclude più» (H.U. von Balthasar, Gloria. Una estetica teologica, vol. 1, La percezione della forma, Jaca Book, Milano 1971, p. 11). Ripeto, possiamo dirci delle cose pur vere, ma questo non porta più a una conclusione. L’unica cosa che conclude, come dice Balthasar, è il fascino di qualcosa di così bello, di così straordinario, è qualcosa di cui uno fa esperienza e che lo affascina, perché tutto è cominciato per questo fascino; e se questo fascino viene meno, tutte le conclusioni non hanno più la forza di liberarci dal nostro pezzettino. Solo se uno è veramente leale, riconosce che il pezzettino che si è conquistato non è sufficiente, e allora comincia a vedere in qualcuno con cui lavora che c’è un’altra possibilità. Solo questo potrà avere la forza e il fascino di muovere qualcosa nell’intimo di sé, altrimenti saremo come tutti: una grossissima organizzazione, stupenda, un macchinario che continua a sputare cibo invece che dati, ma che non conclude più, non inchioda più nessuna delle persone con cui lavoriamo, a cui portiamo il pacco alimentare, con cui entriamo in rapporto. Il bello di un’opera come la vostra è la verifica che vi consente di fare costantemente: c’è qualcosa che fa mantenere il fascino dell’inizio? In un’opera ormai trentennale avete la possibilità di fare la verifica. Avere un luogo dove ciascuno di noi può verificare se qualcosa dell’inizio è in grado di durare, dimostrerà che è vero, che serve a voi perché diventate più entusiasti, e quindi che siete in grado di trasmettere questo entusiasmo dell’origine a tutti coloro che coinvolgete. Ma sarà innanzitutto qualcosa che farete per voi, per il vostro godimento, per il fascino che proverete, per la vostra sovrabbondanza! Non posso non desiderare questo per voi, per ciascuno di voi. Mi spiace doverlo dire, ma quanto più vedo una persona coinvolta in un’opera – e voi vi coinvolgete alla grande! – tanto più mi viene da piangere quando noto che questo fare non è esperienza e non serve a lei.

Giussani. Quindi ci stai dando anche un’indicazione per il trentennale: che innanzitutto sia per una verifica se questo godimento è ancora vivo in noi.

Carrón. Esatto. Ma la verifica non è se siamo all’altezza o meno, non è questo che mi interessa. Non si tratta di dare un giudizio moralistico sul vostro operato. Tutti abbiamo dei limiti − che mistero c’è in questo? −. La questione è se il nostro io, pur con tutti i suoi limiti, si è incrementato, se si sono incrementati il fascino, il godimento e il desiderio di stare insieme, di lavorare insieme. O se, al contrario, qualcuno ha pensato che questo incremento era solo un di più poco importante e ha cercato di afferrare un suo pezzettino. Perché questo capita a livello di un’opera come la vostra, ma anche rispetto ai grandi temi: pensate come, dopo fine della seconda guerra mondiale, è nata la Comunità Economica Europea, secondo modalità assolutamente imprevedibili, e come adesso ciascuno sta cercando di affermare il proprio particolare contro tutti. Ciascuno lo può verificare. Per questo l’Europa, il Banco Alimentare o qualunque altra realtà non potrà durare se incrementa solo l’organizzazione; è inevitabile che l’organizzazione dell’Unione Europea sia infinitamente più complessa, più articolata dell’inizio, ma oggi tutti ne vediamo le crepe, a volte enormi. Quanto potrà durare se ciascuno persegue il proprio interesse particolare? Perciò domandatevi se l’entusiasmo per l’insieme è cresciuto o no in questi trent’anni. Se dovessimo celebrare l’anniversario “X” della Comunità Europea, che cosa risponderemmo? È cresciuto l’entusiasmo per il tutto da quando alcuni Paesi hanno cominciato a mettersi insieme sottoscrivendo il Trattato del carbone e dell’acciaio? Era un nulla rispetto a tutto quanto abbiamo in comune adesso, ma da allora l’entusiasmo è cresciuto o è venuto meno? Potremmo fare molti esempi di questo tipo. In tal senso, mi interessa che l’anniversario del Banco possa rappresentare un motivo di riflessione per tutti voi, nel punto del cammino in cui ciascuno si trova, che vi aiuti a fare una verifica.

Giussani. A questo proposito, una delle domande ricevute, che può essere un dettaglio o un punto di verifica rispetto all’insieme, è questa: «Come possiamo aiutarci a esprimere meglio ciò che ci muove nell’organizzazione, ad esempio nel rapporto tra Fondazione e OBA (la rete dei Banchi locali) o nel rapporto tra volontari e dipendenti? Che cosa implica sottolineare il valore di essere “rete”, quindi l’essere insieme anche secondo aspetti organizzativi?».

Carrón. Si può organizzare tutto benissimo e non essere insieme, non godere del fatto di essere insieme. Ognuno sa benissimo che cosa deve fare, è responsabile di quello che fa, ma può disinteressarsi degli altri, o una parte ignorare l’altra: il Banco nazionale e la Fondazione possono fregarsene dei Banchi locali, i volontari dei dipendenti, e viceversa. La questione è se tutto collabora a fare percepire veramente il bene, altrimenti ciascuno penserà: «Perché non devo preferire altro?». Se uno non percepisce l’insieme come un bene per sé, nessuno lo convincerà del contrario, qualsiasi ragionamento sarà insufficiente. Come dice von Balthasar: «Non inchioderà più nessuno». In questo consiste la sfida davanti alla quale siamo tutti, in quello che facciamo. Mi stupisce tanto che anche un’opera come il Banco Alimentare, nata dalla genialità di don Giussani e Fossati, debba fare i conti con questa grande sfida: come portare avanti questa origine? Tutte le grandi opere nascono sempre dai geni, ma continuano a vivere solo se l’origine si comunica ad altri, che ne porteranno la responsabilità nel tempo, altrimenti muoiono o finiscono in mano alle banche!

Giussani. Dai Banchi alle banche!

Carrón. Qual è la grande sfida che vedo come decisiva in tante opere? Se riescono a generare dei figli che desiderano continuare l’iniziativa dei padri. Purtroppo, a volte, ci sono figure geniali nel creare opere, ma non nel generare persone che ne continuino l’azione; sono capaci di fare un’opera strepitosa, ma dove sono i figli che possono portarla avanti? Se voi non generate dei “figli”, che futuro avrà il vostro tentativo? Ma per generare non basta una bella organizzazione, perché la gente può essere con voi non per l’organizzazione, ma perché è un lavoro come un altro, e quando non interessa più se ne può andare; l’ideale è andato a quel paese! Non pensate di essere un’eccezione, potreste finire come tanti. Se non riuscite a generare, dove finirà tutto quello che state facendo? Tra qualche anno che cosa resterà di tutto questo? Questa generazione è opera vostra. È una questione che non riguarda me prima di tutto, ma voi, la capacità che avete di comunicare l’entusiasmo dell’origine – è solo questo che genera −, altrimenti non resterà niente. È come se ciascuno di voi dovesse domandarsi: «Ma io ho dato tutta la vita perché questa opera finisca in qualcosa di anonimo, senza volto, e l’origine si riduca semplicemente a un devoto ricordo di qualcosa che fu, per cui “pfff”, si dissolve nell’aria?». Non sia mai che di don Giussani e Fossati si dica: «Chi sono questi qui?». Se l’origine non rimane, se le persone non la incontrano attraverso di voi oggi, che cosa resterà? Vi interessa questo oppure no? Vi interessa poter comunicare questa origine oppure no? Vi interessa comunicare qualcosa ai vostri figli? Vi interessa comunicare qualcosa ai vostri figli del Banco Alimentare?

Giussani. Da questo punto di vista, siccome dicevi che generare è trasmettere, noi abbiamo Vitaliano, che c’era fin dai primi giorni e che ha ben ottantacinque anni; è lui che alla mattina apre l’ufficio della Fondazione, è il primo ad arrivare. Quindi c’è, da una parte, un aspetto di fedeltà, di durata nel tempo, ma, dall’altra parte, c’è anche, io credo, un fattore generazionale, perché generare figli vuol dire anche coinvolgere altri nell’opera.

Carrón. Assolutamente sì! Se non c’è un cambio generazionale, già questo dice che l’opera sarà la vostra tomba. E non è solo una questione anagrafica. Se non si generano dei figli, è la fine, perché un’opera potrà durare nel tempo se è in grado di rinnovarsi. Dovreste essere voi stessi i primi a desiderare questo rinnovo, perché vuol dire avere qualcuno a cui comunicare, a cui passare il testimone. Se a questo problema non pensate voi, ci penserà un altro. Perché il treno arriva alla stazione, puntuale, e non aspetta che noi ci convinciamo! Siamo venuti al mondo con nulla e ce ne andremo via con nulla. O ce lo mettiamo in testa da noi o ci penseranno i fatti a farcelo entrare in testa. Per questo vi ho detto che qui è in gioco l’intelligenza: se non ci sono tra voi persone che capiscono questo, non avranno alcuna capacità di trasmetterlo ad altri; e di voi, del vostro fare, che cosa resterà? Niente. Per carità, il Banco Alimentare potrà anche durare come organizzazione, ma che cosa dura veramente? Per questo penso che una data come il trentennale sia una bella occasione per farsi tutte queste domande. Ma non, insisto, per vedere se siete all’altezza, non mi interessa niente di quanto siete capaci di fare, bensì per rinnovare il gusto dell’origine, dell’inizio. A mio parere questo è il valore di un anniversario: essere un’occasione per ritrovare il gusto dell’origine.

Giussani. Nella nostra attività c’è un tema che negli ultimi anni è diventato sempre più evidente, che in parte tu conosci soprattutto per le testimonianze sulla Colletta Alimentare, cioè il fatto che il Banco è rivolto a tutti, sono coinvolte le persone più diverse, ormai moltissimi volontari non vengono dall’esperienza cristiana, tanto che nei nostri magazzini trovi persone che sono lì per un motivo sociale, per occupare del tempo in una compagnia, per filantropia e desiderio di aiuto sincero, ma non hanno fatto un percorso cristiano. Questo ci provoca perché, lavorando insieme a loro, appare evidente che la motivazione non può essere affidata a una predica, ma passa attraverso un’esperienza da fare insieme, dentro una convivenza che continuamente interroga sulle ragioni per cui si è lì. Uno di noi chiedeva: «Forse per rispondere, nella convivenza con persone così diverse, basta avere in comune la frase del vangelo “Tutto quello che avete fatto a uno solo di questi miei fratelli più piccoli, l’avete fatto a me” (Mt 25,40)? Oppure ci vuole altro?».

Carrón. Basta quello. La questione è che cosa comunichiamo. Racconto un episodio. Mi ha detto una ragazza che in una delle università di Milano c’è stata un’assemblea sugli appartamenti in cui abitano gli universitari; interviene un ragazzo che non è del movimento (come quelli di cui parli tu) e dice: «Io l’anno scorso, quando sono arrivato a Milano, ho chiesto di abitare in uno di questi appartamenti e ho vissuto una cosa così bella che quando quest’anno mi hanno proposto di prendermi la responsabilità di un nuovo appartamento, mi sono reso disponibile, perché volevo comunicare ai nuovi amici che non conoscevo e che sono arrivati quest’anno [nessuno era del movimento] la bellezza che io avevo visto». Questo universitario, che non è di CL, ha percepito una bellezza che vuole comunicare e tutto il suo intervento è stato per dire: «Ma io come posso comunicarla?». E allora comincia a farsi le sue idee: «Ma come posso comunicargliela se non sono sufficientemente coerente?», ma non è la modalità con cui la comunica che mi interessa sottolineare adesso, quanto il fatto che, avendo vissuto in un luogo grazie al quale una bellezza si era attaccata a lui, non poteva più stare con gli altri senza desiderare di comunicare loro la bellezza che aveva visto. Poi cambiamo tema e quella stessa ragazza mi dice: «Adesso stiamo facendo la Scuola di comunità sulla creatura nuova, ma la gente non la sente come direttamente pertinente, e infatti nessuno parla». Le domando: «Ma mi stai parlando degli stessi universitari che hanno comunicato a quel ragazzo la bellezza che lo ha conquistato? Proprio loro non hanno niente da dire sulla novità che è entrata nella loro vita?». Questa sconnessione è il vero problema. Se quegli universitari, quasi nella dimenticanza di sé, sono stati in grado di comunicare la bellezza a un ragazzo che non sapeva niente di niente, fino al punto che gli è venuta la voglia di comunicarlo agli altri, immaginate che possibilità avete di comunicare quella stessa bellezza alle persone che collaborano con voi tutti i giorni. Per questo hai detto giustamente che non serve una predica − di prediche siamo tutti pieni! −. La questione è se viviamo qualcosa che riesca a interessare gli altri. Non c’è un’altra strada. Perché? Perché – è il motivo per cui mi piace la frase di Balthasar − «gli argomenti in favore della verità hanno esaurito la loro forza di conclusione logica», non inchiodano più nessuno. È una bellezza che deve comunicarsi, non delle prediche. Lavorando insieme, c’è qualcosa che possiamo comunicare? C’è una modalità diversa di stare insieme, di rapportarci, di guardarci, di essere in rapporto, di preoccuparci gli uni degli altri? Non occorre niente di particolare, se non domandarci semplicemente: ci troviamo addosso qualcosa di diverso? Perché questa è la grande sfida: comunicare una bellezza alle persone che incontrate e che collaborano con il Banco, qualunque sia la loro origine, rispettando scrupolosamente la loro libertà, senza avere la preoccupazione di affibbiargli una qualunque tessera. Ma come? Vivendo, semplicemente vivendo! Se c’è qualcosa da comunicare, allora si vedrà; gli altri lo potranno riconoscere se lo vedono vivo davanti a sé. Non importano le etichette, che in fondo sono diventate tutte inutili.

Giussani. Oppure ce le appioppano gli altri, magari.

Carrón. Mi riferivo alle etichette che utilizziamo quando diciamo che un intervento è di taglio tecnico, un altro caritativo, un altro umanitario e un altro volontaristico; ciascuno sta nella realtà secondo le circostanze che ha vissuto; se non ha trovato un’altra cosa, che cosa può fare se non essere umanitario o volontaristico? La questione è se strada facendo incrocia qualcos’altro, che sia più interessante di quello che vive. Riguarda tutti noi! Già lo diceva Platone nel Fedone: come può uno attraversare il Pelago della vita? Con la nave migliore che riesce a costruirsi. A meno che uno abbia la possibilità di fare la traversata del Pelago con un mezzo di trasporto più sicuro, cioè per mezzo della «parola rivelata di un dio», l’unica che fa veramente chiarezza sulla vita. È così da allora fino adesso.

Giussani. Ci sono due domande sulla relazione tra lo sforzo e lo star bene con sé, che non credo sia di tipo psicanalitico, ma che riguardi proprio come uno sta: «Il Banco Alimentare è un’opera. Nella quotidianità le diverse responsabilità (famiglia, salute, lavoro) troppo spesso si accavallano. Sembra che le preoccupazioni e le difficoltà aumentino», e certamente noi tutti possiamo testimoniare che il fare andare avanti la macchina è molto più faticoso che anni fa, perché è più complicata, perché all’esterno ci sono molte più minacce, molte più difficoltà, quindi diventa una cosa anche più faticosa operativamente. Ecco dunque la domanda: «È utopia immaginare di vivere questa responsabilità nell’opera con tutta la fedeltà che ci è richiesta, ma anche con letizia?».

Carrón. Non lo è, assolutamente. E non perché noi siamo più bravi, non perché siamo più efficienti, non perché abbiamo più forza di volontà, non perché abbiamo più energie, ma per quello che ci è capitato. Per questo se si perde l’origine, è impossibile, perché la questione è che tutte le responsabilità, tutta la complessità della vita dell’adulto possono diventare, in fondo, una giustificazione per pensare che tutto finisca nel nulla, nella tomba, quando in realtà tutte queste sfide fanno risaltare veramente la diversità che ci è capitato di incontrare. Non è che la vita degli altri sia meno complicata, non è che gli altri non abbiano sfide da affrontare, non è che non abbiamo il problema della famiglia, dei figli, del lavoro eccetera; tutti abbiamo a che fare con queste circostanze, perché è questa la condizione adulta. La questione è: noi abbiamo qualcosa di diverso per poter affrontare tutte queste vicende? Ed è a questo punto che si vede davvero la differenza, non perché siamo più bravi e più efficienti, ma per quello che ci è capitato. Io avevo un amico a Madrid, conosciuto in una parrocchia, che avevo sposato, di cui avevo battezzato tutti i figli e di volta in volta andavo a cena da lui. Un giorno, vedendo quanto era affaticato, gli ho detto: «Perché non vieni alla Scuola di comunità?». Quando gli ho spiegato che cos’è, mi ha risposto: «Non hai capito il mio problema!», e ricomincia a raccontarmi tutti i guai e le complicazioni della sua vita. E io: «È proprio per questo che te l’ho detto!». Ma per lui quello era un’aggiunta, una complicazione ulteriore. E per noi? La fede è una complicazione ulteriore? Oltre a fare tutte le cose che incombono, dobbiamo pure sforzarci di essere lieti? Non dobbiamo fare alcuno sforzo, ma avere una possibilità di rapporto tra di noi per cui cominciamo a guardare tutta la giornata e ad affrontarla, pur con tutte le pesantezze solite, sorprendendo in noi una diversità. Io non trovo una parola più adeguata di questa: è una sorpresa per uno trovarsi addosso una diversità che non è sua, che non ha origine in una sua strategia o in un volontarismo, perché è un’altra cosa che la genera. È un’altra cosa, ed è ciò che la fede offre a chi accetta di accoglierla. Per questo ripeto sempre la domanda: in che cosa si vede se per noi la fede è utile? Non trovo un’altra formula più sintetica di questa: «Chi segue avrà il centuplo». Questa è la promessa di Gesù. Vogliamo sapere se seguiamo? Guardiamo se nella nostra vita c’è il centuplo. È semplice la vicenda. Se non c’è il centuplo, ci dobbiamo domandare: «Ma noi stiamo seguendo qualcosa o no?». Non possiamo generare il centuplo noi stessi, con il nostro tentativo, con il nostro sforzo, con l’organizzazione; è qualcosa che non ha la stessa origine dell’organizzazione, perché proviene da un altro punto sorgivo. È qui dove si vede se uno perde la vita vivendo o la guadagna vivendo. L’essere coinvolti nella stessa storia, per voi che siete impegnati in questa opera, vi serve per crescere? Lo stare insieme, appartenendo a una stessa storia secondo la modalità propria di ciascuno, ciascuno con la propria libertà – senza uniformare niente e nessuno –, è un aiuto per voi o è una rottura di scatole? Altrimenti, perché dovremmo interessarci all’origine? Perché perdere tempo qui questa sera? La questione è se c’è qualcosa che ci interessa non perdere, proprio perché la vita non fa sconti a nessuno; e allora quando uno lo vede, lo riconosce e dice: «Ah, che grazia, che fortuna!».

Giussani. Mentre ringraziamo Julián del tempo che ci ha dedicato e delle cose che ci ha detto, a me sembra che quest’ultima cosa possiamo dirla tutti: «Che fortuna abbiamo avuto!».

Carrón. Se di tutto il dialogo di oggi rimanesse in voi questo, io già sarei contento!

Giussani. Mi sembra che, al di là delle battute, sia davvero una sintesi interessante, che ci invita ogni tanto a domandarci: «Come possiamo sostenere e portare avanti il dono che abbiamo ricevuto, l’eredità che abbiamo avuto?». Innanzitutto riconoscendo che ci è stata donata, che è capitato a noi di riceverla e che abbiamo una gran bella fortuna a essere qui. Quindi la prima cosa che ci dobbiamo ripetere, forse, è la bellezza dell’incontro fatto e che è capitato a me, a te, a lui, a lei e a noi insieme. Tu ci inviti a ripensare alla nostra storia perché questa eredità sia vivente – riguarda le nuove generazioni, l’imparare a trafficarla di più e a cogliere la soddisfazione intera che genera −, per non ridursi a conservare le ceneri, ma rivivendo sempre di più lo slancio dell’inizio, riconoscendo il dono ricevuto, attualizzandolo e verificando come davvero questo oggi mi anima. Allora credo che il lavoro che possiamo fare nei nostri incontri, già a partire da domani, sia proprio questo: approfondire − certamente anche immaginando soluzioni tecniche e organizzative – la riflessione su come rendere più vitali, più forti questi segni, queste tracce di diversità che vediamo.